Se il figlio maggiorenne stipula un contratto di lavoro a tempo determinato, può ancora beneficiare dell’assegno di mantenimento? Secondo la Cassazione no: lo svolgimento di un’attività lavorativa retribuita, anche se a termine, è indice della capacità dell’interessato di procurarsi un’adeguata fonte di reddito. Questi può, dunque, ritenersi economicamente autosufficiente. E’ quanto stabilito con sentenza n. 40282/2021.
La vicenda
Nel caso in esame, un ragazzo (maggiorenne) aveva vinto un concorso presso il Ministero della Difesa per un contratto a tempo determinato della durata di un anno. In primo e in secondo grado i giudici avevano disposto che sul padre continuava a gravare l’obbligo di mantenere il figlio, vista la precarietà dell’impiego.
L’uomo ricorreva, quindi, in Cassazione contro la decisione della Corte d’appello.
La parola agli Ermellini
La Suprema Corte, con sentenza n. 40282/2021, accoglie il ricorso del padre, cassando la decisione del giudice di secondo grado. Per la Cassazione svolgere un lavoro, anche se a tempo determinato, fa venir meno l’obbligo di versare l’assegno di mantenimento che gravava sul padre in base alla sentenza di separazione o di divorzio.
In particolare, la Corte d’appello aveva posto l’accento esclusivamente sulla temporaneità del rapporto di impiego, trascurando l’aspetto retributivo. Aspetto che, invece, viene considerato dalla Cassazione per escludere l’obbligo di corrispondere il mantenimento.
Ad una condizione: che la retribuzione sia adeguata, cioè tale da assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa, così come evidenziato in un precedente provvedimento della Suprema Corte (v. Sent. n. 2245/2006), che richiama l’articolo 36 Cost.
Se tale requisito è soddisfatto, si può dire che l’interessato sia entrato a tutti gli effetti nel mercato del lavoro e che, quindi, sia economicamente indipendente.
E se il contratto a termine non viene rinnovato?
Si tratta di un’ipotesi, a parere degli Ermellini, assimilabile a quella del lavoratore a tempo indeterminato che viene licenziato o dell’imprenditore la cui attività ha esito negativo. Ed anche in questo caso, se la retribuzione ricevuta fino al momento del mancato rinnovo del contratto è adeguata, l’interessato può comunque dirsi economicamente indipendente.
Ha cioè acquisito quella capacità lavorativa e quel grado di responsabilità tali da poter “determinare l’irreversibile cessazione dell’obbligo in questione” (v. Sent. Corte d’appello di Perugia n. 398/2020).
In ogni caso, specifica la Cassazione, l’obbligo non viene meno in automatico, ma occorre valutare caso per caso. Ad esempio, continua a sussistere nel caso in cui il contratto a tempo determinato, fin dall’inizio, non possa ritenersi idoneo a garantire un’indipendenza economica (si pensi ai contratti stagionali o a “chiamata”, che hanno un termine eccessivamente breve) o nel caso in cui il contratto preveda una retribuzione eccessivamente sproporzionata rispetto allo scopo da raggiungere (si pensi all’apprendistato).