In diritto si parla spesso di best interest of the child. Si tratta del principio del “superiore interesse del minore” secondo il quale il giudice, nel risolvere vicende che coinvolgono un soggetto minorenne, deve prendere la decisione che più realizza il miglior interesse di quest’ultimo.
È un principio fondamentale, introdotto per la prima volta nella Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti del minore del 1989 e che oggi permea il diritto minorile dei paesi europei.
Non sempre, però, è facile individuare qual è il miglior interesse del minore, anche perché non è uguale per tutti: un bambino di 4 anni ha certamente esigenze diverse da quelle di un bambino di 12 anni.
Novembre 17, 2018.
foto da: https://meridionews.it/
In Italia questo tema è venuto in rilievo di recente, con la discussione in Parlamento del DDL Pillon: equivalenza dei tempi di frequentazione del minore con ciascuno dei genitori nel corso dell’anno, doppio domicilio del minore presso l’abitazione di ciascuno dei genitori e mantenimento diretto dei figli sono i punti focali del disegno di legge.
Punti che parte della giurisprudenza italiana ha sposato e che l’altra parte ha sconfessato. Sì perché alcuni giudici, nel deliberare la separazione dei coniugi, hanno tradotto il doppio domicilio in affidamento condiviso dei bambini con domiciliazione alternata tra i genitori su base settimanale. È quello che è accaduto a Firenze qualche giorno fa: il Tribunale di Firenze, con sentenza di divorzio n. 2945/2018 del 2 novembre, ha infatti stabilito che un bambino di quasi 13 anni (figlio di una coppia in fase di separazione) convivesse una settimana con la madre e una con il padre.
Ma è davvero un soluzione che privilegia il miglior interesse del minore? Non tutti i giudici sono d’accordo.
Il 9 novembre la Corte d’Appello di Catania, sez. famiglia e minori, emettendo un’ordinanza in un giudizio sulle modalità di affidamento di due minori, è stata chiara: “L’affidamento condiviso non esclude affatto che il minore sia collocato presso uno dei genitori e che sia stabilito uno specifico regime di visita con l’altro genitore”. E inoltre: “La collocazione della prole presso uno dei genitori è il riflesso di un’esigenza pratica, essendo evidente che non è materialmente possibile, né appare opportuno, che il minore conduca la propria esistenza quotidiana presso entrambi i genitori, non più conviventi”.
In altre parole, il giudice catanese ha ritenuto di poter meglio soddisfare l’interesse superiore dei minori collocandoli prevalentemente presso la madre, in quanto “entrambi i minori sono ancora in tenera età e il figlio più piccolo è addirittura nato dopo la disgregazione dell’unione della coppia genitoriale, sicché ha sempre vissuto esclusivamente con la madre assieme al fratellino, con il quale è senza dubbio opportuno che continui a convivere, non apparendo neppure ipotizzabile una separazione dei due fratelli; inoltre, i minori appaiono adeguatamente accuditi dalla madre, che si è sempre occupata dei compiti di cura quotidiana dei figli […] il regime d’affidamento e il collocamento dei minori presso la madre deve, quindi, mantenersi, nell’esclusivo interesse morale e materiale dei minori stessi alla luce del loro vissuto”.
Una traduzione diversa dei punti focali del DDL Pillon ed una posizione diversa da quella del Tribunale di Firenze. È chiaro che le scelte dei due giudici sono state orientate dalle diverse esigenze emerse in concreto: in un caso si trattava di un minore di quasi 13 anni, nell’altro caso di due bambini di 6 e 2 anni. Non esiste, dunque, un’interpretazione univoca del concetto di best interest of the child, che varierà da un caso all’altro. E ciò vale anche per la regola dell’affido condiviso, che sarà compito del giudice calibrare a seconda del caso sottoposto alla sua attenzione.
Inoltre, per coniare un nuovo termine, sarebbe meglio invocare una “co-genitorialità” piuttosto che una bi-genitorialità: perché, se quest’ultimo concetto sembra garantire al bambino il mero diritto di frequentare in modo equivalente entrambi i genitori, il concetto di “co-genitorialità” comprenderebbe quel diritto, sì, ma soprattutto implicherebbe una cooperazione, una collaborazione e una comunicazione tra i genitori che è proprio ciò di cui i figli hanno bisogno.